Carol: claustrofobia e poesia nell’amore precario di Todd Haynes

Carol: claustrofobia e poesia nell’amore precario di Todd Haynes

You see better solutions cause you are young … but you will understand one day … sentiamo la sua voce profonda, sensuale e la immaginiamo nella sua nuova casa, a Madison Avenue, mentre sta per accendersi una sigaretta o posizionarsi, sui capelli biondi, il cappello di seta rosso. La lettera invece è nelle mani della ragazza di provincia, dagli occhi grandi e dal cappellino di lana multicolore che si intona con la sciarpa. È inverno a New York, al mattino il vento è una lancia che trafigge il corpo e alla sera la neve, caduta silenziosa durante il giorno, lascia spazio all’acqua in un eterno valzer ciclico.

Chissà se una delle due ha incrociato, nel brulicare del mattino, un Don Draper pronto a sbranare i suoi vassalli per un contratto saltato. Siamo negli anni Cinquanta, nell’America del sogno, dove James Dean, Montgomery Clift e Marlon Brando stanno riconfigurando totalmente il linguaggio cinematografico. Siamo nell’America del frigorifero sempre pieno, dei fagioli in scatola che non devono mai mancare, degli elettrodomestici all’avanguardia che semplificano la vita, del New York Times sottobraccio che racconta dell’ultima convocazione in aula ad opera del Senatore Joseph McCarthy. Un mondo andato in frantumi con la morte, in diretta televisiva, di John Kennedy nel 1963 e che ha iniziato a macinare immaginario dal secondo dopoguerra. Con la lente implacabile della storia, parliamo di un paese bigotto, che ha sezionato, con la Russia, l’intero globo e che ragiona in termini di schemi prestabiliti e granitici. Di fatto i vari Satana sono i “negri”, gli omosessuali, i comunisti e dall’altra parte c’è la famiglia ripiombata negli anni Novanta in “Seven Heaven”, il nucleo classico, cattolico e produttivo. Un carrozzone che emargina, mette da parte, contrasta e violenta il “diverso”, colui che si trova su un differente terreno.

E la pianta che prende forma ha come linfa la storia d’amore tra Carol Aird e Therese Belivet, non Terese sia ben chiaro. La prima è una donna matura, alta, bionda, dalla pelle limoges, borghese e spaventosamente magnetica mentre la seconda è una giovane ragazza che lavora in un negozio di giocattoli ed è timida, insicura, dagli occhi curiosi e da un candore senza tempo. Gli sguardi delle due si incrociano al negozio, perché Carol vuole comprare un trenino elettrico, simbolo dell’orgia consumista dell’epoca, alla sua cara figlia. A casa la situazione è insostenibile, Carol sta per divorziare mentre Therese affronta la nebulosa del suo futuro con la speranza di diventare un giorno un’apprezzata fotografa. Da questo punto in poi inizia il plot caratterizzato da una storia d’amore che riesce ad esprimersi tra enormi difficoltà e violenze di stampo psicologico. In questo la figlia di Carol, la pressione psicologica e fisica di suo marito, il mondo esterno che controlla e osserva sono tutte omeomerie che aggrediscono, soffocano la poesia, la bellezza, la semplicità espressa dai sentimenti delle due donne. Carol, interpretata da una Cate Blanchett in stato di grazia, si muove come un felino elegante e affascinante, con gli occhi che bucano il quadro, le lunghe braccia che affettano i colori e le dita affusolate che non perdono d’eleganza nemmeno nei momenti di maggiore tensione. Una recitazione esaltata dall’occhio del regista Todd Haynes (e anche dalla musica di Carter Burwell), che fa sprofondare le due protagoniste nei loro stessi ambienti, la villa di Carol e l’appartamentino di Therese, donando il “sogno” allo spettatore nel momento in cui le donne affrontano il viaggio. Bravissima anche Rooney Mara, che costruisce il personaggio di Therese aggiungendo via via elementi, come una tavolozza che lentamente si arricchisce di colori e sfumature. Therese è silenziosa, chiusa nel suo cappottino invernale e nella divisa da lavoro, ingigantita ancor di più dall’atmosfera claustrofobica del Natale, visto che la nostra deve per forza mettersi il cappellino natalizio “amorevolmente” donato dalla direzione del negozio. A farla sbocciare ci pensa l’amore, e questo stesso amore, e il suo iter difficoltoso, portano la recitazione della Mara a livelli drammatici da Premio Oscar.

Per comprendere la reale claustrofobia in cui vengono inserite le due protagoniste basta osservare una sequenza che potrebbe risultare inutile ai fini narrativi viceversa è molto esplicativa della costruzione simbolica di Haynes. Abbiamo superato la metà del film e le due protagoniste stanno vivendo un dei momenti più drammatici della loro relazione; Ora però stiamo “passeggiando” con Carol, la osserviamo di spalle mentre cerca il portasigarette; apre la borsa e come uno schiaffo, una finestra che si chiude velocemente generando rumore ecco che intorno a lei passano degli uomini che osservano dentro la sua borsa. Sono attimi, frazioni di secondo, frustrate emotive a cui il personaggio, inconsciamente e in dialettica con lo spettatore, reagisce fermandosi davanti ad una vetrina dove sono esposte delle valigie. La sequenza termina con un primo piano di Carol: alle sue spalle una cartina geografica piena di linee, confini, divisioni reitera l’atmosfera di costrizione e paranoia.

Una storia d’amore, nelle sale italiane il prossimo undici febbraio, che tiene fede alla mission eclettica di Haynes, in cui all’interno di uno spirito visivo eclettico emerge sempre il file rouge della tematica esistenziale. Quest’ultima ha come bibbia la difficoltà dell’individuo ad affermare la propria identità all’interno di mondi, relazioni, istituzioni sempre minacciose, sorde, atone.

Lascia una risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>