Da Roy Batty a Prometheus: replicanti prossimi venturi

Da Roy Batty a Prometheus: replicanti prossimi venturi

Che si tratti di cyborg, robot, replicanti o androidi, opportunamente il cinema è rimasto e resta affascinato dalla cultura antropica contemporanea e il rapporto dell’uomo con la tecnologia. Il vivace dibattito negli anni Novanta degli studiosi si è concentrato principalmente sul valore del connubio uomo-macchina e sull’intelligenza artificiale. In questo senso pellicole come Videodrome, 2001: Odissea nello spazio, Alien, La mosca, Robocop, Blade Runner, dalla qualità formale ed estetica ostica, per non dire “aggressiva”,  sono stati spesso analizzati mediante la lezione di Marshall McLuhan: l’evoluzione del genere umano a contatto con le rivoluzioni dei mass-media.

Riprendendo il filone apocalittico di Paul Virilio, lo sviluppo, l’apogeo e la decadenza della civiltà umana vengono, di fatto, spiegate analizzando le differenti fasi evolutive della comunicazione collettiva. Quando Michael Fassbender, protagonista del kolossal Prometheus, per la regia di Ridley Scott descrive il suo personaggio, il cyborg David, come uno smartphone, un apparecchio standardizzato, si potrebbe facilmente rischiare di parlare esclusivamente di cinema di fantascienza associato all’evoluzionismo tecnologico. Tuttavia scopriamo che questo robot decifra la realtà circostante attraverso una sua emotività, in cui la comunicazione logica tra terrestre ed extraterrestre, prettamente fantascientifica, viene demitizzata a favore di un’umanizzazione del personaggio. Inoltre egli soffre il rapporto con gli umani, rei di considerarlo un oggetto che ha “vita” solo in una concezione biomeccanica. La ricchezza di questa costruzione, trova un modello virtuoso nel personaggio del replicante Roy Batty e del suo monologo finale prima della morte. Tanta la sua umanizzazione che potremmo inquadrarlo come un nuovo martire cristiano, che ha fede nell’umanità, esalta il valore e la forza del corpore sano ed è costretto, con l’accusa di avere una mens pericolosa, ad immolarsi per aver messo in crisi lo status quo.

Come Roy Batty, il cyborg di Fassbender è “uomo” ed ha una sua fantasia, una sua immaginazione, leopardianamente parlando. Mentre la robotica classica, dalla Maria di Metropolis fino a Robocop, presenta dei punti di riferimento visivi e tematici granitici, appunto l’uomo da un lato e la macchina dall’altro, con, in alcuni casi, relativi echi faustiani del desiderio di rendere immortale l’essere umano, con Roy Batty e David viceversa si entra in un terreno dell’ambiguo, in una superstitio che ha origine e si esaurisce, sin dall’antichità, dal rapporto dell’uomo con la religione, la fede. Autori come Plinio, Tacito o Svetonio, individuavano nel cristianesimo una superstitio capace di generare al suo interno un’oggettivazione del suo messaggio alquanto minacciosa. I primi cristiani venivano accusati di mettere in crisi il culto degli dei civici proponendo nuovi supporti di fede caratterizzati da fenomeni profetici, magici, visionari: erano dunque sprovvisti di bona mens.

Da questo cortocircuito nascono le figure dei martiri cristiani con la famosa frase Semen est sanguis christianoru, e cioè il sangue dei cristiani è semenza di nuovi cristiani. In Blade Runner, Roy Batty è il vettore narrativo che mette in crisi e dichiara ormai l’evoluzione incontrollata del genere umano, ed è un vero martire nell’attimo in cui, completamente nudo, inizia a rivolgersi ad Harrison Ford con frasi incomprensibili che tuttavia esaltano il valore e la forza della propria umanità. Il termine “martirio” viene dal greco martyr, che vuol dire testimone; Batty diventa colui che dà testimonianza della propria fede nell’umanità, in un presente, come alla nascita del Cristianesimo, che è già diventato futuro. Giustamente lo studioso Frank Lafond analizza l’ultima scena individuando a livello di azione spazio-temporale una calata del tono rispetto all’intero film, viceversa emotivamente il tema della colomba, che Batty tiene tra le mani per poi lasciarla volare via, diventa simbolicamente l’anima di cui era provvisto il replicante o forse, continua Lafond, serve a dipingere Batty come un nuovo Cristo. Una finezza analitica quest’ultima, che tuttavia resta a metà strada quando scopriamo che nel romanzo di Philip Dick il robot viene brutalmente ucciso con una pistola e fatto a mille pezzi; nel film invece il corpore sano diventa vettore metaforico e più che evocare il Cristo, fattosi carne ma tornato con lo spirito dal Padre Celeste, potrebbe essere l’evocazione visiva del martirio come risposta umana (cristiana) alla violenza del caos postmoderno (Stato).

Il cyborg di Prometheus strizza l’occhio ad una costruzione dell’immaginario che ha perso per strada l’ossessione, tipicamente anni Ottanta, della messinscena e dello smantellamento del corpo umano o del rapporto uomo-macchina, per concentrasi sull’univocità (comunque ambigua sia ben chiaro) dell’ essenza umana. L’appoggiarsi al mistero del mito di Prometeo in un lontano 2084, con un robot che percepisce il razzismo dell’uomo ed è androgino come Roy Batty (Fassbender chiama in causa David Bowie) assottiglia, opacizza, la riflessione sulla tecnologia per dare voce, e che si tratti di temi presi dall’esegesi cristiana o dalla mitologia greca poco cambia, al mistero cosmico dei limiti dell’uomo nell’affrontare la realtà terrena, e della patientia che bisogna avere nel tempo presente innanzi ad un’ingiustizia caotica che, in Blade Runner è postmoderna, mentre in Prometheus è alla ricerca di un punto di riferimento; quest’ultimo come afflato di speranza verso tutto ciò che è umano.

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