La valigia dei destini incrociati a teatro: come raccontare il dramma dell’Olocausto con poesia e originalità

La valigia dei destini incrociati a teatro: come raccontare il dramma dell’Olocausto con poesia e originalità

Le vicende raccontate in questo atto unico teatrale non riguardano esclusivamente un preciso periodo della storia italiana in quanto momento drammatico, gli ultimi strappi del fascismo e la pazzia della Shoa, e nemmeno si permettono di mappare ideologicamente il medesimo andando a elencare, analizzare, sminuzzare, illuminare lo spettatore con innumerevoli dati o riferimenti storici. La fonte potrebbe essere metaforizzata da quei rivoli d’acqua che scendono a valle, silenziosi e nascosti, che tuttavia affondano continuamente nelle viscere della terra e carsicamente cambiano la forma della natura circostante. Qui la natura siamo Noi, che abbiamo la fortuna di incrociare il rivolo d’acqua, di fatto pochi personaggi e una scenografia spoglia ma dalla grande potenza simbolica, non fosse altro per quella ferrovia spezzata che affonda il suo corpo nel costato del palcoscenico.  Lo svolgimento è ben strutturato e vive, come tutte le opere d’arte, di obiettivi e tesi da avvalorare, tuttavia quel rivolo pungola la nostra riflessione mai puntando sull’eccesso spettacolare viceversa sulla magia poetica e sull’universalismo di parole e azioni manifesto dell’animo umano.

La valigia dei destini incrociati è un tuffo nelle viscere del nostro passato e del nostro presente. Il passato c’è, non può essere cancellato, ed ecco che ci troviamo nell’Italia della Seconda Guerra Mondiale prossima al collasso. Un’Italia razzista, prostrata da anni di battaglie e che di lì a poco affronterà il periodo della guerra civile. Lo spazio è quello della provincia italiana, tante volte attraversata, nei suoi deliri di onnipotenza, dal Duce e il punto, luogo simbolico è una stazione dove quattro personaggi si prendono la responsabilità di condurci al rivolo. Abbiamo il giovane e educato capostazione Michele, il dolce e sognatore fattorino Angelo, l’ingenua e insicura cassiera Alessia e il determinato quanto spavaldo insegnante di educazione fisica, nonché “scienziato razzista”, Roberto. In realtà c’è anche un quinto personaggio, che non vedremo mai fisicamente, che determina l’intreccio e muove il ritmo di tutta l’opera. Il nostro è il piccolo fanciullo ebreo di nome David, prossimo alla deportazione, che tuttavia incontra sulla sua strada Angelo e Michele, che lo nasconderanno riuscendo a salvarlo.

Ed ecco che, grazie alla densa drammaturgia dello scrittore, critico letterario Alessandro Izzi, piomba a smuovere le sinapsi di noi spettatori l’elemento simbolico della valigia con tutta la significazione che si porta dietro, dal tema del viaggio al tema dell’abbandono, dal tema della memoria al tema della speranza. A tenere insieme i lacci ci pensa il personaggio di Angelo, l’unico che conosce il linguaggio delle valigie: il valigiese. Mentre attendiamo sin dall’inizio l’arrivo di un treno, ecco che Angelo, con i suoi movimenti disarticolati e fanciulleschi, è l’unico ad essere totalmente puro, mentre una valigia con la stella di David piomba, a quasi metà dell’opera, al centro della scena. Nello scambio dialettico, poetico tra Angelo e la valigia emergerà l’orrore delle leggi razziali con relativo innesco sul tema David, colui che deve essere salvato. Il valigiese di Angelo inoltre diventa riflessione sulla deriva delle leggi razziali e su un’Italia fascista allo sbando, rappresentata dallo staraciano professore di educazione fisica, che si rende continuamente ridicolo con i suoi esercizi fisici e il capello perfetto alla Galeazzo Ciano,  e dalla cassiera Alessia; quest’ultima ancora in preda alla fascinazione per il mondo in frantumi del Duce ma prossima ad una presa di coscienza traumatica.

Non sono tempi belli per i bambini ebrei in Italia e, tra cinegiornali che manipolano la realtà e notizie di Roma colpita dai bombardamenti degli Alleati, in scena troviamo la già citata ferrovia spezzata, dei lampioni, una panchina, che ci riportano a “L’uomo dal fiore in bocca” di Pirandello, l’ufficio della stazione dove campeggia il gabbiotto di Alessia e un orologio, simulacro quest’ultimo di un tempo malato che gira a vuoto.  Le luci sono soffuse, sempre minacciate dall’ombra e diventano testimonianza della strategia di Angelo e Michele per salvare il piccolo David. La melodia di un violino dichiara l’ingresso nella fase conclusiva dell’opera, il momento cruciale in cui i traumi dovranno essere risolti con l’arrivo del treno della morte. Qui la regia di Maurizio Stammati affianca di petto la drammaturgia di Izzi, caricando la scena con i rumori del treno, le luci che si fanno rosso sangue e un incubo demoniaco dettato dalla memoria della valigia.

Un rivolo pensato e costruito per spiegare alle nostre giovani generazioni il dramma dell’Olocausto; abbiamo densità di linguaggio, poesia e costruzione simbolica sostenuta inoltre da una linea ironica orizzontale mai invadente. Un rivolo perfetto anche per gli adulti, che potranno riscoprire, riflettendo anche su se stessi, la potenza e la forza delle parole. E siamo arrivati al nostro presente, con le lingue del mondo estremamente diverse le une dalle altre che qui, nella drammaturgia di Izzi, abbandonano percorsi tortuosi per riscoprire una direzione necessaria, semplice ed emozionante. Non a caso è David il centro di tutto, quel bambino che dalla confusione, sfruttando il linguaggio dell’opera ci fa cogliere il reale, ci fa distinguere le peculiarità della nostra esistenza.

La valigia dei destini incrociati, tratto dall’omonimo libro di Alessandro Izzi, per la regia di Maurizio Stammati, ha iniziato il suo percorso, con successo, al Teatro Ariston di Gaeta. Prodotto dal Teatro Bertolt Brecht  di Formia, e si appresta a girare prestissimo i teatri italiani.

 

 

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