Robocop

Robocop

Di corpore sano ne è rimasto ben poco, e lo sapevamo, tuttavia esso si prende il palcoscenico delineando e amministrando la giostra narrativa: da un lato il volto e dall’altro i polmoni; di sopra una massa sferica con occhi carichi di sentimento e poco più in basso delle sacche in lattice semilunari che sorreggono i due organi gemelli. Sono questi gli elementi organici che possono rincorrere il libero arbitrio fregandosene del guscio metallico, che cambia colore seguendo gli step dell’intreccio.

Detroit. La società Omnicorp è leader nella produzione di droni impiegati dall’esercito nei teatri di guerra. Il suo avido magnate, Raymond Sellars, vorrebbe spingersi oltre, utilizzando le macchine anche come tutori della legge su suolo statunitense. Per far questo non ha bisogno solo di corrompere l’opinione pubblica, come nel caso dell’anchorman Pat Novak, ma deve smuovere le coscienze della gente. Quale miglior modo che ibridare una macchina con un essere umano? Al progetto ci penserà il luminare della medicina Dr. Dennett Norton e come cavia verrà scelto il poliziotto Alex Murphy, vittima di un attentato in cui ha perso parte del suo corpo. Il tutore RoboCop è pronto a azionarsi e presto la sua geografia anatomica riconfigurerà scienza, ordine pubblico e rapporti di forza.

L’inizio è alla Minority Report, e ci troviamo nello studio televisivo di Pat Novak che ci presenta, a colpi di lavagne virtuali e database infiniti, la tendenza robofobica degli americani. Da lì in poi sarà tutto giocato su tre livelli. Il primo è quello di Murphy/RoboCop e il suo trauma nel passaggio da uomo a macchina con “coscienza”, il secondo è l’iter cognitivo dello stesso nell’accettare il suo nuovo involucro, e il terzo è la sua mission per vendicarsi degli attentatori, in dialettica con il versante sentimentale rappresentato dal personaggio della moglie e del figlio. A implementare i tre livelli ci sono il tema aziendale, con la Omnicorp e lo spregiudicato Sellars che producono i macchinari in Cina, il tema spettacolare, con poche ma buone scene di azione in cui troneggia l’andatura legnosa dell’eroe, e il tema filosofico, non più granitico, focalizzato, come nel primo episodio del 1987, sulla macchina viceversa sugli occhi, i polmoni, lo sguardo, la carne, l’organico dell’eroe.

Un film di buona fattura in cui all’estetica sporca, grigia del primo episodio si sostituisce il patinato delle superfici riflettenti, soprattutto nelle scene del laboratorio Omnicorp. La linea drammaturgica è classica, mentre di sorprendente, e lieto, vi è la totale mancanza di cali di ritmo, con sofisticata alternanza tecnica tra momenti riflessivi, concitati e di riflusso. Dimenticatevi l’eroe dell’epoca reaganiana, e il regista dichiara ciò anche utilizzando nei panni del cattivo magnate quel Michael Keaton che nel 1989, per Batman, si presentava rivestito di lattice concedendo significazione all’idea del corpo come macchina; qui la carne subirà enormi sollecitazioni ma tale resterà e la macchina potrà solo fungere da mezzo.

 

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