Saviano, il sacro e il dialetto nel “non luogo” di Gomorra

Saviano, il sacro e il dialetto nel “non luogo” di Gomorra

Nel corso di queste ultime settimane, la seconda stagione della serie televisiva Gomorra, prodotta da Cattleya, Fandango e Sky, è entrata nuovamente e perentoriamente nel dibattito pubblico. Una seconda stagione, ferma oggi all’ottavo episodio, che vede una ripresa dei temi e dei personaggi che tanta fortuna hanno avuto nella prima stagione. Grazie alla dinastia dei Savastano, del boss Conte e di Don Ciro Di Marzio, si è creato un vero e proprio immaginario collettivo fatto di frasi celebri, eroi e antieroi da citare, parodie o omaggi sul web, dibattiti culturali, sociologici e antropologici sullo sfondo di una fetta di terra molto spesso dimenticata da Dio o in totale guerra con lui: Scampia.

Da un lato, sul versante di aggancio al reale, la serie recupera il mondo e il racconto dell’omonimo romanzo di Roberto Saviano, sfruttato principalmente come “biglietto da visita” tematico e come base per sviluppare narrazioni complesse, multistrand, in cui sono determinanti, imprescindibili i temi cardine caratterizzanti le associazioni mafiose: arricchimento mediante traffici illeciti, spaccio di droga, controllo del territorio, l’esercitazione del controllo in sostituzione dello Stato, faide interne per la conquista del potere e via discorrendo. Nello specifico è la Camorra a essere rappresentata e vissuta dai personaggi, i quali stanno lentamente vampirizzando, grazie al linguaggio della serie, le precedenti opere cinematografiche e televisive sul tema. La domanda che potremmo porci è: Per quale motivo Gomorra sta avendo un grande successo?

Le risposte sono molteplici e vanno ben contestualizzate partendo da un dato molto semplice: Gomorra piace perché è un prodotto con una grande qualità di linguaggio e un’estetica che difficilmente riusciamo a recuperare nei prodotti televisivi italiani. Questo si palesa principalmente grazie alla forza produttiva e alla macchina organizzativa capace di investire forti capitali per la realizzazione della serie. Il contesto culturale in cui si muove Gomorra parte, al vertice, dalla figura di Roberto Saviano, capace, con il suo romanzo omonimo pluripremiato del 2006, di scoperchiare e offrire agli occhi degli italiani l’egemonia dei Casalesi e del Sistema Camorra. In questi dieci anni Saviano ha condotto innumerevoli battaglie contro le organizzazioni camorristiche sfruttando molto la televisione, divenendo a volte anche schiavo delle sue stesse denunce e facendo perdere il valore ideale delle sue parole, divenute da denuncia, cronaca molto spesso monito profetico assorbito mitologicamente dal quadro televisivo. Che sia la sua figura determinante nel creare il vocabolario di Gomorra lo scopriamo approcciandoci con attenzione ad ogni episodio, in cui, prima ancora delle immagini, leggiamo in quadro la scritta Da un’idea di Roberto Saviano. Nel momento in cui abbiamo tale informazione ci ritroviamo a pensare ad una figura determinante negli ultimi dieci anni di storia italiana, di fatto uno scrittore che ha caratterizzato il nostro contemporaneo e che viene sfruttato dalla serie anche come baluardo di qualità, estrema libertà creativa in materia di scrittura e mezzo per creare un primo e stabile contatto fandom. In realtà la vera direzione artistica è affidata al bravo regista Stefano Sollima, tuttavia con il termine idea si concede a Saviano di aleggiare sulla serie, di dare le chiavi al valzer di immagini che stanno (e non possiamo non rendercene conto) sviluppando, ancor di più in questa seconda stagione, una fruizione intensa, dedicata e appassionata. Quindi non solo grande forza estetica e di linguaggio, viceversa anche una capacità di sfruttare la figura di Saviano come carta d’identità, documento intellettuale e punctum di partenza credibile.

Un altro elemento interessante che fluttua nella serie e che continuamente circonda i personaggi è il tema del sacro. Lontana anni luce da una rappresentazione nazional popolare, istituzionale, didascalica della religione e del sacro, Gomorra riesce a creare un sottotesto religioso discreto e convincente. I suoi personaggi, immersi nelle Vele, nelle macchine scure, nelle case fagocitate dagli oggetti, sono continuamente circondati, bombardati da simboli religiosi. Statue o icone di Padre Pio, della Madonna, del Cristo “esistono” in ogni episodio e non in maniera convenzionale. Non ci sono infatti personaggi religiosi, non c’è un versante di recitazione o espressione del tema sacro viceversa la semplice presenza fisica, che rivela e reitera l’anatomia di pensiero delle associazioni mafiose. Molto spesso quando la fotografia è scura, sporca quasi fosse metafora delle pozzanghere e del degrado di Scampia, ecco che veniamo investiti da un simbolo religioso, perimetrato da luci al neon accese, che ha una doppia funzione: praticamente indica il percorso al personaggio, misticamente traduce quel mondo umano come baluardo di perenni e pulsanti contraddizioni. Come la Chiesa cattolica è riuscita, nel corso dei secoli, a far accettare ai fedeli l’idea che la Madonna possa essere sia la Vergine che la Madre, così le associazioni mafiose, in particolar modo la Camorra, riescono a condurre un’esistenza criminale avendo come forza interiore la fede religiosa. Le statue assistono agli omicidi, ascoltano i discorsi tra i Boss, si ritrovano al centro della strada mentre le Paranze sfrecciano con gli scooter, entrano in dialettica emozionale con le aberranti azioni dei protagonisti e sono sempre inquadrate strategicamente (si ricorda, nella prima stagiona, la forte connessione emotiva presente tra Donna Imma e la statua della Madonna).

Terzo elemento è il dialetto. A riguardo la serie ha incassato molte critiche, rea di non presentare correttamente il vero dialetto napoletano, il vero linguaggio utilizzato a Scampia, Secondigliano. Anche in questo caso, come per la figura di Saviano, la serie gioca sulla costruzione di un linguaggio proprio partendo da una base conosciuta e percepibile a tutti. Gomorra non è interessata a presentare, apparecchiare il vero dialetto napoletano, non è quella la sua mission. Viceversa è interessata a costruire una musicalità linguistica che deve accompagnare, far interagire e scontrare i vari personaggi. Da qui i toni pacati e ruvidi di Genny, la signorilità kitch munita di frasi ad effetto del Boss Conte, la velocità con focus sulle ultime sillabe di Don Cito Di Marzio, le lunghe pause e la linearità di Pietro Savastano, l’energia e l’anarchia di linguaggio di O’Track. Il modo di parlare diventa estensione delle azioni dei personaggi, infatti Genny vive nella seconda stagione un lungo versante di attesa, Conte per le sue frasi ad effetto e la strafottenza subirà delle forti conseguenze, Don Ciro dovrà, in una giostra senza fine, distruggere e ricucire rapporti, Pietro Savastano avrà un unico obiettivo senza vie d’uscite mentre O’Track sarà anarchia pura, all’interno di un mondo consumato dalle faide. Se il sacro diviene occhio silenzioso ed elemento della grammatica delle strutture mafiose, il dialetto, e le varie sonorità che mette in campo, diventa ambasciatore delle azioni dei personaggi. Quest’ultimi non hanno alcun cedimento, sostengono continuamente la loro parlata tranne in alcuni momenti dove la sceneggiatura ha bisogno di cambi di ritmo, di turning point, e segnaliamo a tal proposito l’ottavo episodio della seconda stagione nel confronto acceso tra Malammore e Patrizia.

La figura di Saviano, il tema del sacro e il dialetto sono tre elementi che appartengono al forte sottotesto di Gomorra e che creano l’immaginario della serie. Sono punti studiati, che caratterizzano la dimensione visuale della serie ma anche la dimensione simbolica donando comprensione in un continuo gioco tra dentro e fuori. Il cammino della serie non deve essere analizzato come ricaduta sul sociale e non deve essere una testimonianza visiva di ciò che accade nella realtà di tutti i giorni, tali azioni non possono essere sviluppate da un’opera cinematografica. In senso furbesco Gomorra sfrutta la realtà, la “rapina” continuamente per poi approcciarsi ad un discorso diverso, mettendo in scena la tragedia mostruosa delle organizzazioni mafiose in cui Scampia diventa un “non luogo”, una vertiginosa fetta di terra dove è possibile “qualunque cosa” e dove si sfogano gli istinti inconsci e animali dell’essere umano.

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