Silence: paternità, filiazione e spirazione nel capolavoro di Scorsese

Silence: paternità, filiazione e spirazione nel capolavoro di Scorsese

Già nelle sue Confessioni, Agostino d’Ippona, porta tutta la sua teologia verso la riconciliazione, di fatto una dialettica tra la fede e la ragione, allontanandosi dalla maggior parte dei teologi latini che aveva studiato dopo la conversione: Tertulliano, Gerolamo e via discorrendo.

Nel paradigma della dottrina trinitaria portata avanti da Agostino, Dio è il Bene sommo che porta alla Verità, alla Conoscenza, alla Bellezza e alla Luce eterna. Tutto ciò però non va inquadrato, da parte del fedele cristiano, in una mistica totale con Dio, viceversa il fruitio Dei può compiersi solo in un’altra vita, nella vita eterna mentre sulla Terra il peccatore può fare sua esclusivamente la “volontà” di Dio. In quest’ottica il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, da sempre analizzati dagli ellenisti sul versante di una schematica pluralità divina, diventano con Agostino un’unica natura di partenza, un’unica essenza racchiusa nel Padre. Quest’ultimo genera il Figlio che diventa Parola e Immagine del Padre; lo Spirito invece è l’unico respiro, di fatto l’amore tra Padre e Figlio. In questo le tre categorie, che si spalmano su un versante unitario, rappresentano anche l’intreccio delle tre persone. È questo il nuovo macroparadigma latino che condizionerà tutto l’Occidente cattolico arrivando sino ai giorni nostri.

Paternità

Silence è l’opera di un grande autore americano, Martin Scorsese, che da sempre ha portato avanti il suo occhio e la sua arte mediante una sensibilità novecentesca. In lui, la percezione del Bene e del Male, vive all’interno dell’animo umano, in una continua lotta interpretativa ed esperenziale dove la fede e il senso di colpa, la paura e la debolezza, la fermezza e la praticità, salgono sul ring come il suo Jack La Motta. Nato e cresciuto in un ambiente di ferventi cattolici, Scorsese ha sempre vissuto una lacerazione ambigua riguardo alla fede, arrivando a mettere anche in crisi la polarità tra bene e male con L’ultima tentazione di Cristo, in cui l’immagine cristologica nevrotica e ambigua di Willem Defoe diventava metafora del tempo postmoderno che dilania l’interiorità legandosi, leopardianamente, ad una natura tormentosa e tormentata. Con Silence l’autore italo-americano ci porta nel medioevo giapponese, precisamente nel XVII secolo, e lo fa con due giovani preti portoghesi gesuiti, Padre Rodrigues e Padre Garupe, che partono in missione per recuperare il loro padre spirituale, Cristóvão Ferreira, che potrebbe aver abbracciato l’apostasia. Scorsese autodispiega le sue nevrosi spirituali con questi tre personaggi, che per tre ore di narrazione sono immersi in un luogo dove è in atto una persecuzione contro i cristiani da parte dei buddisti. Con torture e intimidazioni, il Grande Inquisitore obbliga i cristiani a calpestare le immagini sacre di Gesù e della Madonna pena la morte con atroci sofferenze. Seppur ispirato dai good characters dell’omonimo romanzo di Shūsaku Endō, il padre di questo film sceglie tale periodo anche come monito, visto che parliamo dell’età del confessionalismo, che porterà in Europa ad una guerra trentennale (1618-1648). Sono decenni in cui viene messa in crisi la rigidità tradizionalista e il Giappone, questi tre gesuiti che vivono la Fede in maniera diversa, rappresentano lo scorrere teologico del paradigma cattolico-cristiano, di un tempo e di una ricerca spirituale che non può arrestarsi. Il ritmo del film è lento, la macchina da presa lascia per strada la vertigine di Casinò o la tachicardia di The Departed per farsi documento visivo, riflessione soggettiva di cui va a nutrirsi lo spettatore. Il manierismo ha lasciato il posto alla confessione visiva, con personaggi che confessano continuamente in un luogo “altro” minacciato ma allo stesso tempo calmo, ristorato dallo spirito. L’impasto autoriale di Scorsese, in gioco tra trauma europeo e fabbrica del sogno hollywoodiano, iconicizza il tempo e lo fa sin dal suo incipit quando interagiamo con corpi dilaniati dalle torture che trasudano intensità e commozione come la Croce di Gerone. Scorsese si ferma a pensare, si ferma sui volti, sul cammino dei due preti che cercano di ritrovare il loro padre spirituale e la loro stessa fede. Il quadro non vive di sussulti ma di staticità, i luoghi, che non sono più squallidi ma vissuti, non più disperati ma dotati di speranza, non più volgari ma ricchi di pietà, vengono resi immortali dal piano fisso e da campi che sembrerebbero non risentire del ritmo del montaggio.

Filiazione

In una struttura narrativa molto lineare, il rapporto che Scorsese instaura con lo spettatore è lo stesso che si manifesta tra Rodriguez e Garupe con i cristiani giapponesi. È tutto ciò un rapporto di fiducia e tensione emotiva sulla base del grande mistero della fede, in questo caso portata avanti dalla Sacra Romana Chiesa. Rodriguez è partenza e approdo di una struttura narrativa che utilizza anche la storia dell’arte e dell’iconografia cristiana come testamento visivo. In alcuni frangenti di forte tensione drammaturgica, il giovane padre interagisce con il volto del Cristo di El Greco, in un rapporto spaziale biunivoco che vive anche lo spettatore. Il volto del Cristo si estranea dal contesto, rispetta la visionarietà prettamente scorsesiana, e palesa, rinforza tutto il versante “bizantino” del fim dove ogni cosa trova armonia in linee lunghissime, braccia disarticolate, sguardi fantasmatici, gesti enfatici. Come la fede di Rodriguez ha bisogno di cibarsi del dubbio e della sofferenza, così lo splendore del volto del Cristo di El Greco, nell’incontrare la macchina da presa mediante il piano fisso, si fa trascendenza cinematografica. I volti rappresentano la continua filiazione di Silence, in quei campi e controcampi in cui alla confessione cristiana si associa continuamente la cristallizzazione della fede tormentata di Scorsese.

Spirazione

I padri gesuiti e i Kirishtani di questo film soffiano sul nostro pensiero di uomini in gioco tra Ventesimo e Ventunesimo secolo. È impossibile palesare, seppur si voglia raccontare un episodio circoscritto della secolare attività del cristianesimo/cattolicesimo, un racconto che non faccia emergere le contraddizioni, le diverse concezioni che si sono sviluppate nel corso dei secoli lungo le rive del Mediterraneo e oltre. Anche questo film non ha la pretesa di non palesarle, come lo stesso Scorsese sa che, sul versante del martirio, anche la Chiesa ha le sue grandi responsabilità in materia di violenza, lacrime e sangue. Se volessimo trovare tuttavia un insegnamento da questo capolavoro di linguaggio e impostazione, ecco che i fossili visivi portati avanti nelle immagini di questo film sono perfetti per raccontarci la nostra cultura occidentale, sono perfetti per violentarci con l’idea del senso di colpa che macchia e arricchisce le nostre sinapsi, sono perfetti nello smascherare la nostra ormai incapacità a riflettere sul senso delle cose, sono perfetti nel dichiarare guerra alla spettacolarizzazione di ogni respiro visivo. In tutto ciò entrano e si siedono tutti gli esseri umani, laici e cattolici, cristiano ortodossi e islamici, buddisti e via discorrendo. Resta il primato occidentale, di fatto un film che racconta noi occidentali strumentalizzando una cultura millenaria come quella giapponese attraverso un occhio autoriale forgiatosi in casa nostra. Ma l’urgenza di Scorsese diventa spazio di monito e riflessione, e non c’è cosa più necessaria in un tempo dove l’entertainment offusca l’ambiguità, chiude lo sguardo, atrofizza la soggettività.

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