The Revenant … nei cinema

The Revenant … nei cinema

La zampa enorme del Grizzly affonda i suoi lunghi artigli nella carne e la testa dell’uomo sprofonda nella terra. Le carni maciullate respirano il passar ciclico delle stagioni e sembrerebbero armonizzarsi con la natura mentre spettri di una cultura sterminata aiutano nel cammino. E poi c’è quella scritta su un muro di ghiaccio: Fitzgerald ha ucciso mio figlio.

America, inizi Ottocento. Glass guida alcuni mercanti di pelli e mercenari nella foresta, tra vallate ghiacciate, enormi montagne, cascate e fiumi incontaminati. L’obiettivo è raggiungere al più presto il Forte visto che sulle tracce del gruppo ci sono i temuti Arikara. Glass è un uomo di poche parole, lucida il suo fucile e tiene a bada gli istinti del suo caro figliolo indiano Hawk. A un tratto però l’uomo viene assalito da un orso, che lo riduce in fin di vita. A vegliare su di lui ci sono il figlio e altri due mercenari, tra cui l’ambiguo e strafottente Fitzgerald. Quest’ultimo non si farà scrupoli a sotterrare vivo Glass non prima di aver ucciso il caro Hawk davanti ai suoi occhi. Passerà un lungo inverno prima che Glass possa ristabilirsi con l’unico obiettivo, ideale di vita rimastogli: la vendetta.

L’inizio in medias res mostra tutta la forza tecnica della regia, con lo scontro tra i bianchi civilizzatori, sporchi e bastardi, e gli indiani Arikara, di fatto spettri di una cultura ormai risucchiata via nella sua stessa terra. Il topic del film viene innescato dallo scontro di Glass con l’orso per poi virare su vari focus. Abbiamo l’amore tra un padre e un figlio, il desiderio di vendetta, la lotta per la sopravvivenza in una natura che, come i cambi di stagioni, si presenta minacciosa e matrigna, accogliente e silenziosa, putrida e regale, barocca e asciutta. Il contesto che accompagna la sopravvivenza di Glass è caratterizzato da varie modulazioni, dal ricordo della moglie indiana uccisa da un mercenario che offre il lato onirico, mistico allo spettatore, al rapporto dell’uomo con gli animali, che diventano mezzo dinamico e poetico per l’incessante percorso orizzontale. Il tempo è il presente, viviamo dentro il trauma del protagonista, che per due ore di film, come Jeff in La finestra sul cortile, è sempre impossibilitato a compiere movimenti naturali. Da un lato madre natura e dall’altro lato le ferite di Glass, con quest’ultimo che detona l’identificazione con il suo camminare carponi, il suo trascinarsi, il suo bere l’acqua della sorgente e sputare immediatamente sangue dalla bocca, il suo ripararsi dal freddo all’interno di un cavallo dopo aver accuratamente tolto tutte le budella. L’obiettivo è classico, c’è un antagonista da sconfiggere e ciò lo capiamo sin dall’inizio tuttavia restiamo incollati alle immagini, all’allestimento di grande fattura.

Lo stilista messicano premio Oscar cuce un perfetto abito per la performance di Leonardo Di Caprio a colpi di piani sequenza, macchina a mano che rotea, si allontana, torna indietro oppure segue i movimenti del corpo delle figure in quadro. I rumori fuori campo, i suoni della montagna, la paglia che diventa fuoco creando ombre che si armonizzano ai silenzi di Glass. Il realismo esasperato trova il suo habitat necessario nel buio della sala cinematografica e ci concede un capolavoro nonostante l’eccessiva durata e alcune lacune di sceneggiatura.

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