Squid Game … su Netflix

Squid Game … su Netflix

Un indirizzo, un cartoncino marrone con dei simboli e un punto d’incontro mentre la città di Seul ancora dorme. I colori, scuri e vivi da un lato quanto asettici e che pulsano morte dall’altro, aprono ad una realtà parallela. Qui si interagisce con la memoria e la violenza in un gioco scandito dal tempo, dal cinismo e dalla paura inconscia, ora conscia, della morte.

Corea del Sud, Seul. Scopriamo, sotto la pioggia e lo smog della metropoli invasa dalla tecnologia, le traiettorie esistenziali di alcuni personaggi. Vittime di enormi crediti da saldare, ecco che vengono ingaggiati, tramite un bigliettino da visita, per un gioco con un ricco montepremi. In questa nuova sfida affascinante c’è “solo” un effetto collaterale: se perdi muori.

La qualità di questa serie televisiva sudcoreana alberga nella capacità di fondere più generi classici, occidentali diremmo, all’interno della struttura narrativa. In realtà, collegandoci anche all’opera Parasite di Bong Joon-ho, possiamo affermare come tale incedere in quadro sia uno stile peculiare di questa cinematografia. Sci-fi e grottesco, commedia e pulp, spy-story e drama, azione e psicologia si fluidificano senza forzature. La scrittura affronta temi filosofici e pratici, dal dolore della perdita al controllo capillare della società post-Covid, dal libero arbitrio all’essere umano in continuo equilibrio precario tra animale sociale e bestia in cattività pronta a sbranare il prossimo. I luoghi, angusti e asfissianti della realtà, caratterizzati dall’ansia dei personaggi di saldare i debiti e dalla necessità di voler trovare un senso nella quotidianità, si contrappongono ai colori accesi, alla plasticità delle ambientazioni del gioco. Abbiamo una dimensione tripartita a livello di significazione: il primo livello riguarda la dimensione “ludica”, con la divisione a squadre, il tema del reality, con il conseguente meccanismo cinico e violento del “dentro o fuori” tanto caro all’universo mediale. Il secondo è caratterizzato dal sovvertimento tra la realtà all’esterno e quella all’interno, con quest’ultima che modifica le esigenze, le urgenze e le caratteristiche dei protagonisti donando verticalità e orizzontalità alle traiettorie narrative. Un terzo livello è a carattere allegorico, con i personaggi che diventano maschere metaforiche che ci raccontano le angosce e le paure umane. Ogni episodio è caratterizzato da un marcato elettrocardiogramma ritmico, rispettoso dell’alternanza fra dialoghi serrati e scene di azione pura.

Le immagini in movimento sudcoreane puntano ovviamente anche al mercato occidentale e per farlo prendono, fagocitano il nostro cinema e lo rimpastano donando un preciso tratto stilistico. Lo spettatore ritrova, durante la visione, codici delle avanguardie artistiche, dei sottogeneri cinematografici che fidelizzano mediante il dettaglio e il tutto risulta coerente e mai ridondante. Una serie da guardare, che fa riflettere sullo stato dell’arte della serialità occidentale in un momento di ricchezza quantitativa sprovvista di picchi qualitativi.

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