Il sol dell’avvenire

Il sol dell’avvenire

“… e deve sempre dire la sua su tutto, è sfiancante … non deve più presentarsi sul set con i sabot, che io odio e tu lo sai però non hai detto niente … se il piede è coperto davanti deve essere coperto anche dietro … i sabot sono come le pantofole, che non sono delle scarpe ma una visione del mondo, una tragica visione del mondo”

 La metanarrazione ci porta a Budapest, al Quarticciolo, sul set e nella vita privata di due anime posizionate in una fase di passaggio, in quell’attimo in cui i ruoli, questa volta della vita vera, iniziano appunto a sfiancare, e c’è bisogno di impegno e di coraggio per riconfigurare gli equilibri. Tra budget ridotti e produttori coreani, la redazione dell’Unità e le musiche originali per la scena finale del film, ecco che il nuovo mondo di Moretti allenta le tensioni e le velocità dello spettatore, portando virtuosa e consapevole riflessione.

Giovanni (Nanni Moretti) è al suo ventesimo film e questa volta è deciso a raccontare la crisi di Budapest 56 attraverso il racconto delle reazioni del partito comunista italiano dell’epoca, rappresentato dal compagno, giornalista e segretario di quartiere portato in scena da Ennio (Silvio Orlando) e dalla compagna di partito e di vita, interpretata da Vera (Barbora Bobulova). Quest’ultima fa i capricci sul set e Giovanni deve “fare i conti” anche con la moglie Paola (Margherita Buy), che sta producendo non solo il suo film d’autore ma anche un altro lungometraggio di puro intrattenimento, e sembrerebbe sull’orlo di una crisi esistenziale, e di coppia, che dura ormai da troppo tempo.

I due mondi raccontati si fondono continuamente durante la narrazione e sono governati in quadro da Giovanni, che con grande ortodossia, entra ed esce dal personaggio dell’attore e del regista. Budapest 56, attraverso il Cirkusz Budavari che, come in un’epifania, arriva per alcuni spettacoli al Quarticciolo, diventa la metafora della riflessione, utopica e militante, di Moretti sul partito comunista italiano e sugli italiani, quando i volti di quest’ultimi si coloravano di meraviglia per l’arrivo della luce elettrica nel quartiere. L’altro mondo è la vita di tutti i giorni, con Paola che va dallo psicologo, Giovanni che confessa alla figlia di far uso costante di antidepressivi e sonniferi, e una terra che sta diventando “di nessuno” in cui ognuno si fionda in trincea.

Questi temi, cari al mondo del regista, pulsano delle citazioni in chiave felliniana e morettiana, con un ritmo narrativo lento in cui le idee, le condizioni e le emozioni dei personaggi sono affidate esclusivamente ai dialoghi, ricchi di versanti ironici e di invettive per il consumo dell’arte. La narrazione offre anche il momento del sogno, di una riflessione emotiva, affidata al personaggio di Pierre (Mathieu Almaric), produttore in disgrazia che con i suoi occhi, ritualizzanti una condizione di stupore, si stacca dallo scorrere degli eventi o ai passaggi in quadro in cui osserviamo la gioventù di Giovanni e Paola, un ricorso alla memoria che diventa registro poetico. Infine le musiche, la canzone italiana, da Battiato a Noemi, che “liberano” i personaggi dai loro costanti pensieri.

Con quest’opera Nanni Moretti toglie la polvere da alcune fotografie del passato, in chiave politica, ma si concentra principalmente sul cinema, sulla bellezza del set e del vivere la materialità del fare un film. Il suo occhio ironico e spiazzante questa volta recupera atmosfere che donano speranza, che ritrovano la bellezza, mediante la sofferenza, del fermarsi a parlare, a confrontarsi e del comprendere le proprie imperfezioni.

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