Johnny Deep, a settembre, ci conduce nella memoria

Johnny Deep, a settembre, ci conduce nella memoria

È un mese molto particolare settembre, lo è sempre stato. Si caratterizza da uno spazio di tempo che diventa sempre crocevia di qualcosa: quando si è bambini c’è l’ansia del primo giorno all’asilo, crescendo c’è la scuola che ritorna a condizionare le giornate, da adulti ecco arrivare la sessione di esami posticipati dell’università o l’inizio di una nuova avventura lavorativa. Il clima cambia, abbandona il caldo torrido dei mesi estivi mentre il cielo inizia a presentarsi con delle nuvole che al bianco sovrappongono il rosa o un corposo grigio che, a tratti e sul far della sera, diventa nero. Ritorna la pioggia, che si era rotolata giù per qualche istante durante l’estate, che diventa presenza minacciosa o lieta al tempo stesso. Gli amori o gli strappi emotivi veloci vissuti in spiaggia o in montagna si riconfigurano con gli schemi lasciati a giugno e tutto “ritorna” al suo posto. Settembre lascia quindi spazio alla riflessione, al pensiero e la mente, fisiologicamente, traccia una linea tra un prima e un dopo; in quella linea è la memoria a prendere il sopravvento e nel nostro quotidiano a pungolarla ci pensano spesso le immagini in movimento.

L’homo videns italiano ritrova in questo mese un altro bivio se non fondamentale quantomeno stimolante, di fatto l’inizio del Festival di Venezia. Uno spazio magico e chiuso, quasi claustrofobico, in cui per dieci giorni è il cinema ad archiviare un altro anno proponendo, sotto la metafora della lanterna magica, un nuovo, inevitabile passaggio. Da due giorni una delle immagini “veneziane” che rimbalza maggiormente sui quotidiani e sul web è quella del divo Johnny Depp, presente al Lido con un film fuori concorso dal titolo Black Mass. L’opera racconta l’iter di un boss irlandese nella Boston degli anni Settanta, che viene “ingaggiato” dall’FBI per distruggere la mafia italiana. Nel film Depp si presenta con una maschera che tiene fede al suo stile camaleontico, tuttavia l’immagine sopra citata che sta creando “scompiglio” non alberga le stanze del film viceversa la vita reale. Eccolo che lo vediamo in pasto ai flash dei fotografi; alle sue spalle un poster azzurro con il logo della Biennale: il capello impomatato, lo sguardo fisso, la camicia bianca stretta nella giacca verde, quest’ultima che con difficoltà si è riunita nell’unico bottone disponibile, il pantalone grigio deserto che sovrasta le scarpe eleganti bianche e nere. Il nostro è visibilmente sovrappeso, la faccia stanca e disincantata che fa scattare il detonatore simbolico: il prima e il dopo. Andando indietro nel tempo e abbracciando la memoria, ecco che Depp, per quelli della mia generazione, ha rappresentato la magia del cinema e dello star system hollywoodiano. Negli anni Venti c’è stato Rodolfo Valentino, poi lo scettro è andato ai vari James Dean, Marlon Brando, Paul Newman, Richard Gere, Tom Cruise e negli anni Novanta c’è stato Lui, che si è diviso il trono con Brad Pitt. Come una tela del Reni, ecco che Depp riusciva a racchiudere tutte le caratteristiche che si avvicinano alla perfezione, al divino: bello, dannato, talentuoso, dallo sguardo dolce, camaleontico, intelligente, fuori dagli schemi, schivo. La sua prima interpretazione è, coincidenza vuole, con il primo Nightmare di Wes Craven, il genio dell’horror scomparso pochi giorni fa. Impossibile dimenticarsi della sua presenza fissa ma discreta, chiusa da altri mostri attoriali, in Platoon di Oliver Stone, in cui la sua bellezza risalta all’ennesima potenza e quello sguardo dolce e impaurito, come solo Dean o Montgomery Clift sapevano donarci, che si predispone a raggiungere piena maturazione. Quest’ultima arriva come un uragano in Edward Mani di forbice, il film che ha consegnato alla storia la bellezza e il talento di Depp. In quel film, in quella favola nera e fiamminga, nasce la mitologia di questo attore che accompagnerà l’immaginario di un’intera generazione cresciuta a colpi di Baywatch, Beverly Hills 90210, Il Principe di Bel Hair e via discorrendo. Siamo nell’incipit degli anni Novanta e Deep diventa un’icona di stile rivoluzionando l’alfabeto estetico e artistico del grande attore.

Siamo nella casa dei Boogs, e l’angelica Kim è in primo piano mentre sullo sfondo la madre sistema gli addobbi di Natale. L’inquadratura è schiacciata, la fotografia per ora è calda, gialla mentre la musica di Danny Elfman “bussa” alla porta. Stacco, vediamo Kim di profilo che viene attirata da qualcosa ed esce fuori in giardino. Ad accoglierla una neve soffice che si posa sui suoi capelli biondi e sul vestito bianco. Dietro l’angolo c’è Lui e la macchina da presa sembra quasi non volerlo disturbare mentre “documenta” il suo genio, la sua sensibilità. Burton fa danzare sotto la neve Kim mentre Edward continua a tagliuzzare l’Angelo e i suoi lunghi capelli nero corvino, scomposti e anarchici, incorniciano lo splendore del volto. Kim continua a danzare, noi danziamo con lei e l’Angelo di ghiaccio ci rivela il mistero di una storia d’amore che diventa allegoria di purezza e autenticità, ma anche di sofferenza. I primi piani sul volto di Edward, concentrato e pensieroso, e di Kim, spensierata e sognante, marcano la distanza fisica tra i due e la pulsante vicinanza emotiva.

È questa una delle sequenze più belle del cinema di Johnny Depp, un testamento artistico che ha emozionato intere schiere di giovani ragazze e ragazzi. Da lì in poi sarebbe stato un crescendo condito da grandi successi e dall’importante, ma non sempre riuscita, collaborazione con Tim Burton. Depp diventa uno degli attori più pagati al mondo, la sua vita viene raccontata nei minimi particolari dai media e le sue maschere riempiono le sale cinematografiche di tutto il mondo. Ed arriviamo, dopo mezzo secolo, alla “dimensione” veneziana, con il suo volto distrutto forse da troppi anni di alcool ed eccessi, inaugurati con la relazione con Kate Moss e planati al Lido in modo sfacciato. La morale non deve prendere piede in questo discorso, e ogni soggetto è libero di vivere come meglio crede fregandosene del contesto, dell’esterno. Detto questo, quell’immagine ci riporta al discorso iniziale, ci conduce al settembre che delimita e crea una linea con la sua condizione di passaggio. Un passaggio della memoria, come la camminata di Deep a Blow e il suo “Sono l’americano”, come i continui strappi repentini a casa della moglie in Donnie Brasco,di fatto un passaggio che ci porta a riflettere su ciò che è stato, un attimo che scardina il pensiero dei tempi andati come se quei capelli impomatati, quei denti neri diventassero propaggini di un mondo che è semplicemente cambiato. Il problema non alberga l’immagine nel suo complesso, viceversa è interessante l’evocazione simbolica della stessa tanto da portare un mondo di persone a ricevere un pugno nello stomaco mediante l’interazione con la decadenza fisica, estetica di Depp. Come prima di andare a scuola, a settembre, c’è un qualcosa che prende allo stomaco, come prima di sostenere un esame, a settembre, sentiamo un’ansia da prestazione antipatica così vedere quest’anno Depp a Venezia, a settembre, ci ha donato un attimo di malinconia, di impotenza di un qualcosa che è cambiato per sempre.

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