Sharon Tate/Margot Robbie: il fantasma dell’opera di Tarantino

Sharon Tate/Margot Robbie: il fantasma dell’opera di Tarantino

In questa nona sinfonia tarantiniana molteplici sono gli elementi che potrebbero essere presi, isolati e analizzati; potremmo soffermarci sull’atteggiamento storico dell’autore, che in questa pellicola si dimostra attento a sviscerare il suo mondo lentamente e con una sorta di malinconia di fondo; potremmo valutare la coppia protagonista tirata a lucido per l’occasione, un Leonardo Di Caprio/Rick Dalton sovrappeso e gonfio di talento sprecato e un Brad Pitt/Cliff Booth tirato a lucido e catalizzatore di snodi narrativi; potremmo, come sempre accade nei film dell’autore, soffermarci sugli innumerevoli simulacri distillati lungo quasi centottanta minuti di narrazione. Abbiamo deciso tuttavia di concentrare il nostro focus sul personaggio femminile della pellicola, quel nucleo che collega la fantasia, il romance con il versante storico, di fatto Sharon Tate, interpretata da Margot Robbie.

Sin dalle prime scene in quadro, la Tate di Tarantino porta in dote una sintassi ben delineata: la osserviamo salire in macchina con suo marito, Roman Polanski, e il “ralenti” si concentra sul suo volto, “occupato” dai grandi occhiali neri e da un fazzoletto di seta pregiata che copre parte del capo e che ci riporta all’eleganza di Audrey Hepburn o allo stile di Jackie Kennedy. Siamo alla fine degli anni Sessanta e questo personaggio, durante tutto il film, si assumerà la responsabilità di mettere insieme l’aggancio alla patina commerciale/consumistica anni Sessanta, declinata in termini di eleganza, moda e immaginario cinematografico e di contrastare allo stesso tempo le “forze” avverse rappresentate dai diavoli della Mason family o dal girovagare tra set e nuovi progetti del duo Dalton/Booth. Dopo il primo “ralenti” ecco che, citando Kill Bill, osserviamo la Tate nell’abitacolo della macchina mentre i due innamorati raggiungono una delle tante feste private sulla collina più famosa dello star system. L’inquadratura mostra il personaggio di spalle che viene quasi fagocitato dalle curve e dai tornanti prima di aprirsi all’enorme ingresso della villa, quest’ultima inquadrata rigorosamente in dolly e con una lentezza che ci riporta ai movimenti di Notorious – L’amante perduta. In circa quaranta secondi Tarantino ha così indicato il sistema valoriale di un personaggio, una sorta di Cappuccetto Rosso in un mondo di lupi, che non avrà mai spazio per interagire realmente con il contesto, che non riuscirà mai realmente a comunicare con il prossimo e che non avrà mai modo di avere una vera e propria evoluzione o arco narrativo.

Questo personaggio è una sorta di fantasma che si muove nelle viscere della pellicola, è un elemento in quadro che, avvolto dalla luce simile alla valigetta di Pulp Fiction, si inoltra allo sguardo sempre lentamente e sempre con un’aria di stupore, quasi fosse planato da un altro pianeta. A rafforzare questa tesi potremmo sondare la sequenza del cinema, in cui la Tate decide di guardare, nel buio della sala, il suo film in cartellone: The Wrecking Crew. Nell’abisso della sala, vero archetipo tarantiniano, gli occhi del personaggio entrano in contatto con la reale Tate filtrata dalla macchina dal presa, e lo spettatore viene condotto a subire un gioco al quadrato, in cui il reale, lo storico rappresentato dalle sequenze del film proiettato, testimoniano la natura prettamente cinematografica, fantasmagorica del volto e della mimica di Margot Robbie ripresa in primo piano. Quest’ultima assume delle pose fanciulline, osserva con gli occhi curiosi di un bambino la luce delle immagini e si stupisce, quasi fosse una studentessa al suo primo giorno di scuola, delle risate in sala, di quel pubblico che ne sta decretando la scalata al mondo hollywoodiano. Si da il caso però che la Tate di Tarantino non venga riconosciuta all’ingresso del cinema, di fronte a quella biglietteria in cui la ragazza del botteghino fatica molto a focalizzare il suo volto, e solo l’intervento del proprietario della sala consentirà all’attrice di ammirarsi in sala. C’è dunque la volontà di portare il personaggio in una dimensione altra, in bilico tra l’elemento storico e ciò che il film racconta, di fatto un mondo anni Sessanta in cui vennero a confrontarsi e scontrarsi molti modelli e sistemi valoriali.

È forse questo personaggio il fantasma del trauma americano in bilico tra guerra del Vietnam, patina dello star system e presa di coscienza? È forse questo personaggio il fantasma che ci racconta dell’infanzia dell’autore, che a fine anni sessanta era solito fiondarsi con la madre nel buio di un cinema? È forse questo personaggio il fantasma di un passato che può essere studiato, approfondito e continuamente evocato?

Tante sfumature e tante traiettorie vengono a concentrarsi in Sharon Tate, in quel viso angelico capace di vivere i centottanta minuti con distacco, stupore e lieta, dispettosa superficialità, leggerezza. È lei dunque l’angolo, il mondo più recondito della pellicola, è quel personaggio che porta maggiormente lo spettatore a ritrovare i sentimenti dell’autore, i sentimenti di un regista capace di mostrare il solito impasto geniale ma anche una riflessione su ciò che è stato, su ciò che non può ritornare e su ciò che ha inciso.

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