Batman: un uomo distrutto che cerca di sopravvivere

Batman: un uomo distrutto che cerca di sopravvivere

Cerco di scrivere storie che riescano a portare in primo piano tutto questo, racconti sconvolgenti in termini psicologici, del panorama interiore. Siamo nel 1984, e lo sceneggiatore, autore Alan Moore rimescola le carte del tessuto esperienziale della DC Comics, portando a un nuovo livello l’ibridazione tra fumetto e letteratura mondiale. Il suo Swamp Thing, creatura mostruosa delle paludi, abbandona il mainstream, che giocava tutto suoi conflitti esteriori al personaggio, per diventare soggetto attraversato da emozioni, psicologia, aspetti elementari e primordiali che aprono alla grancassa dell’animo umano, alle nere inquietudini della mente.

 

Sono passati circa quarant’anni da quel periodo ma l’ultimo Batman, targato Matt Reeves, sembrerebbe recuperare l’asset di quegli anni, con sfumature, citazioni, strutture tipiche di quel decennio e creando, di conseguenza, una discontinuità con il recente passato e con i prodotti Marvel. Il panorama interiore di cui parla Moore è quella distesa nera che accompagna Pattinson/Wayne/Batman durante tutte le quasi tre ore di proiezione e potremmo tranquillamente sovrapporre la costruzione del regista statunitense ai nuclei tipici del versante storico testimoniato: tematiche più mature, l’arte come detonatore di istanze politiche e ambientali, il realismo, nuove tecniche narrative e la commistione, il melting pot tra generi, dall’horror al fantasy, dallo sci-fi alla robotica.  In più rimarrebbero intatti gli elementi primigeni del mito del Cavaliere Oscuro, di fatto l’uomo pipistrello come simbolo della notte, dell’oscurità, quindi un eroe, anti-eroe notturno che supera il concetto di giustizia ponendosi al di sopra di essa, vista la totale assenza di un tessuto organico nel caos di Gotham, una città che divora se stessa.

 

Tuttavia risulta interessante notare come tutti questi tre livelli di costruzione del film, dal dato storico all’interiorità del personaggio fino ad arrivare alle sue origini mitiche e traumatiche, siano totalmente radicate all’interno del nostro contemporaneo, con un continuo rimescolamento in quadro. Prosegue dunque la grande capacità di questo personaggio tenebroso di aggrapparsi, adattarsi alle epoche storiche e ai vari cambiamenti della società occidentale senza soffrire lo scorrere del tempo.

 

In questo caso la chiave di volta, che modella la pasta dei tre livelli di Reeves, è la vera e propria crisi psicologica del personaggio, il suo vagare nella notte, bagnato continuamente dalla pioggia. Ti sei sempre sentito in colpa sussurra Alfred a Bruce, hai tante cicatrici e ti aspetti sempre il peggio dalle persone ribadisce un’innamorata Cat Woman all’uomo pipistrello. Siamo di fronte ad un personaggio distrutto psicologicamente che, nella prima ora di narrazione, non mostra mai la “maschera Bruce” viceversa va muovendosi e indagando solitario e pensoso con la sua corazza nera. A differenza della costruzione di Nolan, qui il nostro si muove, immerso in uno spazio caratterizzato da una fotografia sporca, caliginosa che alterna il rosso fuoco al nero, il grigio opaco al marrone, dando l’idea di essere un vero e proprio cittadino, di fatto un essere umano in preda all’ansia e al senso di colpa. Questo soggetto preoccupato, che ci confessa con la voce fuori campo i suoi pensieri negativi, ha bisogno, come spesso accade alle persone che vivono momenti di forte depressione, di riportare, scrivere su un diario le proprie sensazioni/indagini; egli poi salta via, sulla sua motocicletta, mettendosi il casco come un perfetto cittadino, va confidandosi con Gordon e Cat Woman, vomita letteralmente ad Alfred il disprezzo verso la figura genitoriale. In Nolan tutta la messinscena mirava a esaltare, mitizzare il nichilismo del personaggio, con strappi continui che giocavano sulla spettacolarità delle sequenze e sulla profondità polarizzata tra l’anima nera dell’uomo pipistrello e il cattivo di turno. Qui tale fusione non c’è perché il nostro vive il disagio, la discesa nell’abisso principalmente su un versante umano, su quel panorama interiore, intimo, che Moore inaugura a metà degli anni Ottanta. Da qui l’esigenza di far percepire allo spettatore un periodo storico, di dotarlo, su questa griglia, di precisi riferimenti, citazioni temporali che in Nolan, per esempio, erano molto meno percepibili. Le citazioni spaziano dall’alcova del boss Carmine Falcone richiamante perfettamente la casa di Eric Draven nel Corvo, allo sguardo “lungo, profondo” che percepiamo osservando la casa dell’Enigmista, costruita seguendo alla perfezione quella di Jim Carrey in Batman Forever. Alle citazioni si sovrappone il dato musicale, con sfumature e atmosfere richiamanti le sonorità dei The Cure con l’album Disintegration o i primi progetti musicali dei Nine Inch Nails, per non parlare di Something in The Way dei Nirvana, vero connettore sinfonico dell’opera. Altro scarto lo ritroviamo nella costruzione iconica dei cattivi; questi sembrerebbero seguire il realismo impostato dal protagonista, da qui figure che abbracciano il principio di umanizzazione, come Pinguino, e che concedono solo al dialogo i tanti riferimenti, ancorati graniticamente alla tradizione del fumetto DC, al mondo degli animali. La messinscena esalta lo stile, la tecnica del “quadro nel quadro” con continue cornici che plasmano, incastonano le figure umane, richiamando lo stile fotografico di Taxi Driver di Scorsese.

 

Guardando in casa DC/Warner, da sempre, sin dalle origini, Batman ha rappresentato il polo umano del supereroe: la meritocrazia, la scelta di preferire alla ricchezza la giustizia, l’assenza di superpoteri, l’utilizzo di tecnologie sofisticate, sono tutti elementi che hanno portato questo personaggio a superare, nell’immaginario collettivo e in termini di botteghino, lo stesso Superman. Il lato oscuro, il suo essere oggetto dello sguardo altrui diventando metafora scopica della lanterna magica del cinema, hanno stratificato enormemente un personaggio che, prima dell’arrivo di questa pellicola, sembrava proiettato verso una dimensione fin troppo epica e mitica. Il grande lavoro fatto da Reeves ci consegna, con grande stupore e lieta sorpresa, un personaggio nuovamente aderente alla realtà delle cose, a quelle paure, ansie, turbamenti che innescano il principio di identificazione.  Un Batman diverso dal versante gotico-fumettistico (Burton), lontano dall’ipercromia lisergica (Schumacher) e che saluta i toni nichilisti, muscolari (Nolan) per farsi nuova pasta in cerca di sopravvivenza.

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