Il cinema di Carlo Verdone: non solo malinconia ma anche forte senso di imbarazzo
Alberto o Carlo? Se andassimo in giro per Roma, e non solo, a proporre questa domanda, il primo sarebbe scelto da una grande fetta di interpellati, di fatto sarebbe plebiscitaria la sua investitura nelle generazioni dai cinquanta in su. Altro discorso per le generazioni recenti, quelle nate tra gli Ottanta e i Novanta, per intenderci quelle che hanno gioito per le prodezze di Roberto Baggio nel Mondiale americano o che hanno subito lietamente il mito di Fiorello e del suo Karaoke; ecco quelle forse sceglierebbero Carlo. Alberto Sordi e Carlo Verdone, due divinità del nostro cinema che si dividono, affettano il nostro paese soprattutto come capacità di raccontare l’italianità, profumando la loro arte attraverso l’osservazione del modus operandi che ci gira intorno, che balza da un bar di periferia alla pineta d’estate, dal viaggio fuori porta alla sistemazione, previa raccomandazione, di un figlio, dall’innamoramento tormentato per una donna allo scontro generazionale, dal senso di malinconia esteso alla maschera sociale.
Personalmente scelgo Carlo, di fatto la maschera e l’attore di commedia che meglio ha raccontato l’Italia negli ultimi quarant’anni partendo dalla romanità e utilizzando quest’ultima come cassa di risonanza per un discorso nazionale. Verdone è un “raccomandato” e da piccolo, nella sua casa di Roma, dove troneggia il padre Mario Verdone, uno dei più studiati e stimati docenti di critica cinematografica, nonché Direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia, passano le serate Vittorio De Sica, Sergio Leone, Ennio Morricone, Vittorio Gassman, Roberto Rossellini, pittori, poeti e via discorrendo. Facile per Carlo adoperarsi, a mò di spugna, per fare suo quel mondo alto borghese che ha alfabetizzato gran parte del cinema italiano. C’è come un continuo senso di imbarazzo nei film di Verdone che potrebbe prendere spunto dalla sua intima consapevolezza di essere, almeno nello starting point della sua carriera, un privilegiato. L’imbarazzo emerge dalle maschere di alcuni suoi personaggi e la cosa si fa evidente con il Sergio di Borotalco, in cui la potenza verbosa e di massa del personaggio di Mario Brega esplodono e lo sovrastano, quasi fosse una figura paterna narcotizzante, lo violentano visto che Brega arriva a prendere addirittura a cinghiate il povero ragazzo ingenuo e vittima degli eventi. La grandezza sta in questa capacità, al di là delle battute e dei film nel loro complesso, di offrire continuamente allo spettatore un senso di vuoto, che non è soltanto malinconia, ma vero e proprio imbarazzo di contro agli eventi. Quest’ultimi devono essere vissuti e c’è la totale volontà nel farlo, però il senso di colpa e di imbarazzo tedia continuamente l’iter esistenziale. In questo filo entrano anche le spalle, le donne di Verdone, dalla dolce e battagliera Asia Argento di Perdiamoci di vista, soprattutto nella scena quando dalla finestra vede Fuxas sfrecciare in macchina nella notte con la sorella, all’indifesa e nevrotica Margherita Buy di Maledetto il giorno che t’ho incontrato, nella scena in cui la nostra piomba nella stanza d’albergo di Bernardo trovandolo con l’ex ragazza.
Ma forse l’attrice che più reitera il senso di imbarazzo è Claudia Gerini, una delle più importanti muse di Verdone, soprattutto a metà anni Novanta. Andiamo per un attimo a Viaggi di Nozze, dove la Gerini è Jessica, di fatto la fresca sposa di Ivano e donna della coppia trash e ignorante di contro alle altre due coppie: nevrotica e psicotica una, media e sfigata l’altra. La Gerini sprigiona eros, innalza e modella l’arte di Verdone, da must come O famo strano a Enfatti, passando per il suo fisico mozzafiato che fa da simulacro al senso di vuoto continuo che sembrerebbe avvolgere la coppia. Tuttavia il personaggio della Gerini diventa ancora più ricco sotto una linea di dolcezza drammaturgica che emerge nonostante parta da un embrione cafonal. Jessica vorrebbe chiamare sua figlia Maria, come la Madonna, e infatti viene immediatamente narcotizzata da Ivano: Ma che nome da presepio Maria, ma chi se chiama più Maria. È l’unica, tra i due, a sentire che il rapporto ha bisogno di una scossa e ricrea letteralmente, per risvegliare l’entusiasmo, la fase del corteggiamento. In quella sequenza al ristorante, dove i due fanno finta di non conoscersi, emerge tutto il senso di imbarazzo del cinema di Verdone. Lei è bellissima, seduta al tavolo, e diventa oggetto dello sguardo di Ivano. Jessica si offre senza alcuna remora ma vive il tutto con vergogna, quasi non riuscisse a sostenere quello sguardo, quel “giudizio” che la investe. La banana, mangiata con la mano che copre la bocca iper-truccata, non è solo elemento che rimanda al trash ma anche ingenuità e voglia di raccogliersi in un’atmosfera diversa. Come Carlo Verdone da sempre nelle sue interviste viene lietamente, ma anche energicamente, investito dal ricordo del padre, quasi ci fosse una continua lotta tra padre e figlio, ecco che i duellanti della coppia trash si ritrovano fermi in macchina sotto casa di lei. Da oggetto dello sguardo Jessica diventa esclusivamente oggetto sessuale e viene investita dalla bocca e dalla lingua di Ivano sentendosi offesa, presa in giro, “violentata”. L’imbarazzo ha portato a uno scatto di orgoglio che però verrà presto sopito sotto le stelle e la noia. A coronare questo percorso esistenziale ecco che arriva un altro personaggio della Gerini, la Iris di Sono pazzo di Iris Blond, in cui abbiamo la perfetta equazione esistenziale che poggia sul senso di imbarazzo. La vita va vissuta, Carlo Verdone ha voglia di fare l’attore e si rende conto di avere le qualità, il talento e una strada semplificata. Tutto ciò va fatto senza paura ma facendo emergere il senso di colpa e vivere con quest’ultimo tollerandolo. Stessa cosa succede al personaggio di Iris: la ragazza ha talento, viene scoperta e ha la possibilità di crescere grazie al “padre putativo”; diventa una cantante di successo, ma per fare questo deve essere investita dal senso di colpa e la scena finale del treno racchiude tale concetto, con Romeo che si volta e Iris che però ha già preso il treno: si è sentita fuori luogo, ha fatto la sua scelta, ha provato un senso di vergogna ed è andata avanti.
Spesso la critica e tutti gli appassionati di Carlo Verdone restano lietamente colpiti dai finali dei suoi film, dove non c’è quasi mai un senso di vittoria, di speranza o di gioia, e anche quando le cose potrebbero andar bene, Borotalco docet, il tutto rimane sospeso, aleatorio. Sono finali malinconici, che coronano le parabole di personaggi continuamente condizionati dalla vita, perennemente in balìa degli eventi. Ma la malinconia è amica sincera dell’imbarazzo, che non è, come abbiamo visto, appannaggio esclusivo di una prima lettura, di fatto il faccione di Rolando mentre riscalda i piedi di Sandy in Acqua e Sapone, o di Oscar a colloquio con il regista in Troppo Forte, viceversa è un sentimento che parte da lontano, che visceralmente caratterizza Carlo Verdone e colpisce il nostro inconscio perché lo sentiamo vicino, familiare, sempre pronto a fuoriuscire come meccanismo di difesa.