Roma 2016: La caja vacia

Roma 2016: La caja vacia

Sin dal principio conosciamo due anime che si prendono sinceramente il loro tempo per “ritrovarsi”. La città è un continuo valzer di rumori fuori campo visto che la macchina da presa tiene fede al testamento dell’incipit puntando tutto sui due protagonisti e sull’estetica. In questo percorso a tappe è evidente la sincerità quanto claudicante la profondità.

Messico. Jazmine è una ragazza semplice, lavora in un fast food e ha il sogno, un giorno, di divenire una brava e apprezzata drammaturga. La sua vita viene sconvolta dall’incidente sul lavoro del padre Toussaint, dovuto ad un primo sintomo di demenza vascolare. Padre e figlia si ritrovano così a vivere sotto lo stesso tetto dopo anni di silenzi ed emozioni represse. Il tempo passato insieme servirà a ricostruire i cocci mentre la malattia darà sfogo alla memoria e ai fantasmi.

Ci troviamo in un percorso lineare, dove sin dal trauma fisico iniziale, di fatto l’incidente, i due protagonisti iniziano il loro “viaggio”, la “resa dei conti”, l’entrata nella “caverna”. Al tempo presente si affianca il passato, con continui flashback che ci raccontano la vita sofferta di Toussaint, un emigrante delle colonie francesi che si è ricostruito una vita in Messico; di contro viviamo la vita di Jazmine che va lentamente rivoluzionandosi. L’estetica e i movimenti di macchina, giocando con una fotografia sporca, paludosa, diventano metafora dei sentimenti dei personaggi che si muovono principalmente in interni.

Un film che avrebbe potuto raccogliere maggiori riscontri positivi se solo ci fosse stato maggiore rigore, raziocinio nel trasferire allo spettatore i detonatori emotivi dei due personaggi. Tutta la backstory di Toussaint non ha il tempo di essere decodificata e non riesce nemmeno a materializzarsi come viaggio onirico scatenato dalla demenza. Inoltre nell’ultima parte di film gli eventi precipitano in maniera ingiustificata lasciando forti dubbi sulla struttura della sceneggiatura.

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