Solo Dio perdona

Solo Dio perdona

Non siamo ai livelli alti di Drive o Valhalla Rising. A volte guardiamo il protagonista Ryan Gosling e ritorniamo indietro nel tempo, nostalgici di una forza evocativa e narrativa che in questo caso non c’è: punto. Parliamo dell’ultima pellicola di uno tra i più bravi e talentuosi registi in circolazione, il danese Nicolas Winding Refn, che qui, almeno, mantiene la rotta del cinema inteso, prima di tutto, come grande mezzo visivo. Dopo circa un’ora di proiezione siamo lì che aspettiamo invano un salto di qualità. Grande tecnica, ma poco cuore.

Bangkok. Il taciturno Julian gestisce una palestra di pugilato come copertura per il business della cocaina e dell’eroina. In una notte di follia, il violento fratello Billy uccide una prostituta minorenne. Le autorità si rivolgono all’ex poliziotto Chang, che punisce Billy tenendo fede al suo ideale di giustizia: la morte. Intanto promette vendetta la “valchiria” Crystal, il capo dell’organizzazione criminale, piombata in città a recuperare il corpo del figlio prediletto.

Chang è l’”Angelo della vendetta” e, nelle intenzioni di Refn, dovrebbe rappresentare una sorta di Dio antagonista a Julian, che invece rappresenterebbe un criminale privo di equilibrio spirituale e dilaniato continuamente al suo interno. Peccato che il tutto si sgretola ogni minuto che passa e rimaniamo soli con il grande estetismo, le luci al neon, e la buona recitazione. Possiamo solo essere lietamente sorpresi in alcune sequenze, come quando Chang, tra le viuzze di Bangkok, scaraventa sulla faccia di un sicario una pentola di olio bollente o quando, puntando tutto sul versante edipico, Crystal tesse a cena le lodi del pene di Billy imbarazzando lo spento Julian.

La colonna sonora non ha una forte significazione e si propone esclusivamente come ritmo delle pulsioni dei personaggi, tra cui Chang è l’unico ad avere, per la messinscena, un doppio binario, visto che ci interfacciamo spesso con la sua ombra. C’è inoltre un omaggio all’Italia, con un David di Michelangelo attaccato al muro che si gode una delle tante torture e fa da contraltare, con la perfezione delle sue forme, ai corpi sventrati che ciclicamente, meccanicamente Refn ci apparecchia.

La sintesi latita e i fischi in sala, durante la proiezione stampa, certificano il passo falso. Un regista che saprà sicuramente ripartire per farci sognare ma che, in questo caso, ha dimostrato un atteggiamento stanco e svogliato.

 

 

 

 

 

 

 

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