The Congress

The Congress

Circa quattro anni fa, a una domanda del sottoscritto riguardo al suo cinema visto come processo terapeutico pungolante la mente del fruitore, Ari Folman rispose andando a sviscerare la dicotomia tra reale e animato; quest’ultimo elemento, nel suo alfabeto, viene investito semplicemente della responsabilità di sviluppare una maggiore connessione con le sinapsi dello spettatore. A tal proposito, mentre con Valzer with Bashir avevamo un’animazione asciutta e delicata, atta a farci comprendere il percorso dell’animo di un soggetto devastato dalla guerra, con The Congress entriamo in un delirio psicotico caldo e luciferino, dove il mirino è puntato sulla chimica dei nostri cervelli sempre più in balìa dell’irreale.

Robin Wright si è ritirata a vita privata con i suoi due figli Aaron e Sarah, ma non ha perso quella bellezza angelica che l’ha resa un’eroina del cinema commerciale anni Ottanta. Per questo motivo la Miramount decide di fagocitare maggiormente il suo mito e le propone di ricostruirla digitalmente con la promessa di renderla “immortale”. La Wright accetta tra mille dubbi e, trascorsi circa venti anni, si ritrova eroina visiva in una realtà parallela in preda al delirio animato. Si è arrivati a un mondo di anime perse che non hanno resistito alla vita rifugiandosi in cocktails psicotropi e rinchiudendosi nella città di Abrahama City, dove si sta per svolgere il primo Congresso Futuristico. Intanto, nel mondo reale, le persone soffrono in silenzio e con pudore.

La nerboruta grammatica esistenziale di Folman è presente soprattutto nella prima parte in live action, girata con un’atmosfera rarefatta. Qui scopriamo un territorio di frontiera, preciso rimando a Israele, il tema della scelta e la forza della sensibilità umana, rappresentata dalla malattia di Aaron, con quest’ultimo che diventerà anello di congiunzione tra reale e irreale. Nella seconda parte l’animazione abbandona la nebulosa e sono i colori accesi, caldi e aggressivi, che colpiscono lo spettatore delineando i vari livelli critici. Un primo è il punto interrogativo sul percorso del cinema del futuro con focus sull’uomo, l’attore, un secondo è la sempre maggiore impotenza dell’essere umano di contro ad una società in preda ad antidepressivi e psicofarmaci e il terzo è il vero senso della vita da ricercare in uno spazio dominato dalle soluzioni e mai dai procedimenti.

Attesa e impazienza, grigio e rosso, umano e animato, silenzio e delirio, forme geometriche e forme rotonde, la citazione e l’autocitazione, la paura e la presa di coscienza; sono queste le corpose coppie di significazioni della terapia di Folman, gestite a volte in maniera troppo perentoria e con una logica eccessivamente intima per essere apprezzata fino in fondo. Il film, tratto dal libro “Il Congresso di Futurologia” di Stanislaw Lern, è una giostra visiva di ottimo livello in cui, tuttavia, il regista sembra aver leggermente narcotizzato la sua vena poetica per l’eccessivo gusto di stupire.

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